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I diritti dei malati terminali
Il Prof. Renato Cimino chiede al Prof. Umberto Veronesi un parere sui diritti dei malati terminali




Prof Cimino:



"Caro Collega Veronesi,
i lunghi anni, più di 40, passati in Ospedale, sempre in un Reparto di Ematologia, del quale sono stato Primario nell'ultimo ventennio del secolo scorso, mi hanno fatto vivere molte vicende di malati onco-ematologici per i quali la Scienza Medica riteneva indicata solo una terapia palliativa (i cosidetti "malati terminali").

Credo che a quel punto sia da tutelare il diritto del paziente a ritornare, quando possibile, fra le mura domestiche, per impedire che il passaggio all'altra vita avvenga in un anonimo letto ospedaliero.

Vi sono reparti dove invece il malato giunto all'ultima spiaggia viene trattenuto ad ogni costo, realizzando un accanimento terapeutico difficilmente condivisibile.
Vorrei da Lei un commento a questa mia che possa valere da autorevole consiglio comportamentale a tanti Colleghi in servizio attivo".




Risposta del Prof Veronesi:



"Caro amico, penso che nessuno, né medico né paziente, sia favorevole all’accanimento terapeutico. E non solo: laici, cattolici, giuristi, eticisti, tutti sono contrari, ma nessuno sa definire che cosa sia veramente e quale siano i suoi confini. Io dico sempre che la definizione stessa sia in sé un paradosso perché “accanirsi” significa “infierire”, un verbo che stride con l’aggettivo “terapeutico” che indica l’esatto contrario: che cura e salva.
Dovremmo forse parlare di “ostinazione terapeutica”. Il quesito da cui partire per questa riflessione è: come decidere in quali casi un malato terminale può ancora essere trattato?
È evidente che il problema riguarda in prima battuta il medico, ma credo che continuare a rivolgere ai medici il monito di non insistere nelle cure può farci scivolare nella direzione opposta, in quello che io definisco, un po’ severamente, “l’abbandonismo” terapeutico.
Per questo credo sia necessario ribadire un principio fondamentale: il medico non deve né ostinarsi nelle cure né rinunciare per timore dell’insuccesso. Deve, molto onestamente, acquisire la volontà del paziente, dopo averlo informato con chiarezza assoluta. Nella mia esperienza un paziente se ha una chance, per quanto piccola, anche solo di soffrire meno, chiede disperatamente di essere curato.
Per questo non si può parlare di accanimento terapeutico senza parlare di volontà del paziente ed è questa volontà che conta.
Dire ai medici “non accanitevi” non basta. Bisogna forse dire: scegliete le vostre terapie in rapporto al desiderio del paziente di farsi curare o di non farsi curare e di affrontare il passaggio, come dice lei, dove desidera".

16/07/2007

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